Luca Basilli [34], Ussita (MC), 16 febbraio 2018 Sono Luca Basilli, ho 34 anni, siamo a Ussita, in questo momento siamo dentro un’abitazione, dentro una SAE di 60 metri quadrati. E che dire del terremoto… Il terremoto che ci ha preso, la prima scossa, quella della notte (24 agosto 2016) è stata una scossa che non ti faceva capire più di tanto, avevi l’impressione di non riuscire a tenere niente tra le mani, tutto ti sfuggiva, ti sentivi impotente di essere al mondo e vedevi la disperazione e lo smarrimento sul volto delle persone, il non capire quanto sia grave quello che è successo, l’impulso di fuggire, di scappare da qualcosa che magari poi si è rivelato più grande di quello che pensavamo… Ci ha buttati giù dal letto, diciamo, ci ha fatto una sveglia molto molto molto forte, poi ci siamo resi conto che non era più vivibile. Un primo tempo io mi sono, diciamo tra virgolette, appoggiato da mia zia che abita verso il mare, a Porto Sant’Elpidio ed i miei genitori sono rimasti qui. Dopo quella scossa è stato un continuo ripetersi di scosse, più grandi, più piccole, non riusciva a smettere. Perciò quei giorni io li ho vissuti lontani dalla famiglia, col pensiero comunque che la situazione stava degenerando velocemente anche se riuscivamo ancora a stare nelle nostre abitazioni: io parlo del mese di agosto, della prima scossa, quel periodo lì. Poi è successo che io ho avuto altri impicci, altre cose, mi sono dovuto assentare da casa, con mio fratello che stava a Macerata, mi trovavo da lui, quando è venuta la scossa più grande, quella più forte, quella con l’epicentro ad Ussita e lì, quella notte, una notte da film io dico, un po’ un film tragico, no? Distruttivo. La scossa io l’avevo avvertita anche a Macerata con mio fratello. E pioveva, pioveva veramente tanto e la gente… io ero sceso da casa con mio fratello, ho visto cose… gente che usciva in pigiama, gente che usciva col piatto sulle mani, gente che urlava, strillava, prendeva i bambini e se li tirava così… se li tirava, li prendeva in braccio. Veramente una brutta situazione, un brutto momento. Le linee telefoniche che erano intasate. I social network… Facebook, WhatsApp… cercavo in qualche modo di contattare la famiglia, ma era impossibile. Poi siamo riusciti con difficoltà, dopo un pochino di tempo, a metterci in contatto: la situazione era più che grave perché le strade erano interrotte, sia qui a Ussita, Visso, Castelsantangelo [sul Nera] che andando verso Tolentino perciò era impossibile praticarle e io mi sono fatto venire a prendere da questa zia che gentilmente mi ha ri-ospitato e sono tornato giù da lei. Di lì a poco, qualche giorno dopo, il sindaco di qui ad Ussita ha emanato un’ordinanza con cui ci doveva essere lo sgombero totale del comune e ci hanno portati, la Protezione Civile ci ha trovato una sistemazione alla Risacca a Porto Sant’Elpidio dove siamo stati per diverso tempo. Abbiamo dunque vissuto questa situazione dalla montagna al mare, con tutte le abitudini che uno poteva avere e che logicamente uno non ritrovavi perché eri stato in qualche modo sradicato dal tuo territorio, cioè il tuo territorio ti aveva strappato le origini, le abitudini la storia e non per scelta ma per obbligo ti aveva reso un po’ nomade, perché ti ha portato in una situazione opposta, dal mare alla montagna appunto. Siamo rimasti alla Risacca per diverso tempo, per circa otto mesi. Lì abbiamo dovuto fare un lento adattamento delle tante situazioni diverse e in quel periodo comunque c’era anche da recuperare il più possibile, no?... quella che era la nostra prima vita, io la chiamo così, perché noi abbiamo vissuto, stiamo vivendo due vite a mio parere. Quella prima del terremoto e quella dopo del terremoto. Abbiamo dovuto recuperare il più possibile a casa nostra, perciò lì c’è stato un graduale trasloco, un graduale recupero e la sensazione, la mia prima sensazione quando sono entrato nella mia casa, qui vicino, a Sasso, una frazione di Ussita, è stata una brutta sensazione, io potrei descriverla facendo un esempio, passatemelo: è come entrare dentro un cadavere. Un cadavere è una persona morta, è una persona fredda, è una persona senza vita, senza anima. Beh quella casa era così: era una casa fredda, spoglia, vuota, morta. Io ho avvertito subito questa sensazione e ho avuto anche dei disturbi: un po’ di battito accelerato, un po’ di giramenti di testa, anche perché la situazione era rischiosa, stare dentro una casa danneggiata, con i Vigili del Fuoco, con scosse in atto, ti dava anche una sorta di paura… Finalmente siamo riusciti con il tempo, parecchio tempo, a svuotarla, perciò abbiamo recuperato delle briciole del nostro passato, dei ricordi e quei ricordi cercheremo in qualche modo di trapiantarli in quello che sarà il futuro di questo paese, di Ussita, delle strutture. In seguito io mi sono trasferito insieme a mio padre a Vari, che è una frazione di Pievetorina, in una casa che non era danneggiata. La situazione era perciò che io e mio padre eravamo a Vari in questa casa mentre mia madre, mio fratello e mio nonno [Salvatore Cascioli] erano a Macerata nel quartiere delle Vergini. Abbiamo vissuto questa divisione per parecchio tempo, perciò il terremoto si può dire che è stato vissuto in molte forme: io ho sempre pensato che il terremoto colpisse le strutture, danneggiasse le strutture, ma colpisce anche il morale, l’interiorità delle persone, e frammenta e spezza le famiglie, spezza le abitudini, spezza la storia, l’arte. Qui se permettete faccio anche un appunto, avevamo delle bellissime chiese, delle bellissime strutture storiche, una bellissima torre, un cimitero che ce lo invidiavano, che è la storia, quella storia che c’è stata concessa per tanto tempo che ad oggi non c’è più e coloro che verranno, non vivranno una realtà ma sarà soltanto un ricordo e un raccontare di quello che noi avevamo. Noi perciò ritornando al punto di prima abbiamo vissuto divisi per parecchi mesi, e c’è stato anche un abituarsi a degli spazi diversi, a delle abitudini diverse, a degli orari… ad un insieme di cose diverse e che non è stato bello perché la famiglia è bella quando è unita, no? Si fa forza, soprattutto in questo contesto si fa forza. E noi non eravamo uniti fino a quando ci hanno dato questa casetta, dove adesso io e la mia famiglia siamo finalmente riuniti e stiamo qui. Questa è una bella casa, una casa moderna a differenza della casa che avevo prima che era molto rustica, era molto di montagna direi, però una casa calda, con tutti i comfort di una bella casa. Adesso c’è da ricominciare ad abituarsi a tante storie. Comunque vivere in un paese circondato da macerie, da ricordi, è un po’ lo specchio di quello che è una persona, io penso, perché noi a quei ricordi ci tenevamo e ci tenevamo viverli quei ricordi, adesso non è più possibile e perciò guardare indietro fa male… perché certe emozioni, certe sensazioni, le potevi avere quando vivevi quel momento e in quel punto, di Ussita, e adesso quel punto non c’è più, quel monumento, quella chiesa, quel piccolo angolo di paradiso, al quale noi eravamo abituati ma di cui magari non ci rendevamo conto. Si dice sempre che le cose si apprezzano tanto quando uno non ce le ha più, e questo penso sia un’esperienza che ci ha fatto capire molto questo insegnamento. Adesso noi dobbiamo ricominciare a fare una cosa, è quella di apprezzare quello che abbiamo, ora, che non è più quello che avevamo e quello che verrà. Questa… questa esperienza del terremoto, penso che deve far riflettere anche su un’altra cosa: che tutte le cose materiali a questo mondo possono anche passare, però la vita, oltre alle strutture, è quella che deve andare avanti, perché una struttura per quanto legata a dei ricordi, a degli affetti si può ricostruire, no? Una vita, una volta che tagliata fuori e interrotta, è impossibile da ricostruire. Ci deve far riflettere sul senso della famiglia, l’unione della famiglia che dev’essere ancora più unita dopo questa esperienza, che il punto forte deve essere il sapersi appoggiare l’uno sull’altro e tirare un po’, come si suol dire qui da noi, a campare. Intervista video
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